La maschera di Amleto. Una terza sponda
Silvio Campus, 18/11/2016

La maschera di Amleto, il monologo scritto e diretto da Monica Luccisano con una padronanza di linguaggio drammaturgico che affascina sia per la geometrica precisione che per la coerenza dell’insieme privo di cedimenti stilistici, è un’opera che trasporta lo spettatore lontano dal luogo fisico della rappresentazione.
La memoria corre, nel buio della sala, a lontani capolavori letterari (con insolita ma non impropria associazione, ritorna in mente il romanzo Grande Sertao di João Guimarães Rosa, in cui lo svelamento della identità di Diadorim – in realtà una donna vestita da uomo – suggella una storia variopinta e ricchissima di metafore) e a più prossimi componimenti teatrali (si pensi ai drammi crepuscolari di Bernard Marie Koltès, dove la solitudine, l’inadeguatezza, il nascondimento, sono sempre presenti,anche se in forma metaforica).
Questi accostamenti non sono temerari: il tema dell’inadeguatezza è al centro di tutte le opere dello scrittore brasiliano; l’analisi delle nevrosi esistenziali e la ricerca della propria identità sono le basi su cui poggiano i lavori del purtroppo trascurato e non sempre compreso commediografo francese. Inoltre non bisogna dimenticare che lo stesso Koltès fu un grande lettore e traduttore di Shakespeare. I monologhi dei suoi personaggi e l’eleganza del linguaggio utilizzato ne sono una prova.
Non è importante sapere se queste similitudini siano casuali oppure volute.
Aggiungono valore al già pregevole testo e lo situano degnamente tra quelle opere che, pur traendo ispirazione da grandi chefs-d’oeuvre del passato, sono in grado di distaccarsene senza tradimenti e pericolose quanto incoerenti revisioni.
In questo caso il merito consiste non soltanto nell’aver rivisitato in modo originale una tragedia celeberrima e la conseguente teoria ottocentesca sulla possibile identità femminile del Principe di Danimarca, ma anche nell’aver “abbandonato” il protagonista in scena, davanti agli spettatori, solo.
Orazio, Ofelia, Gertrude vengono evocati ma restano lontani, assenti; Amleto non ha più, e addirittura sembra non voglia avere, contatti diretti con le figure che popolano la corte e con cui imbastisce dialoghi immaginari; la sua solitudine non è soltanto rappresentata, ma forse desiderata; l’incertezza e l’ambiguità che impregnano le relazioni all’interno della corte stessa si trasformano e diventano a mano a mano del tutto intime, personali; la ricerca di una definita identità (sessuale e psicologica) si trasforma ben presto nella ricerca di un possibile significato dell’esistere.
Questo accade in modo tale da condurre gli spettatori verso una lenta ma costante revisione di se stessi: una sorta di piacevole incanto che trasforma il linguaggio teatrale in una profonda analisi introspettiva.
Il percorso di “maturazione” e di avvicinamento al crepuscolo del protagonista, e di conseguenza della rappresentazione, è affiancato sulla scena da un vero e proprio concerto di musica colta che potrebbe vivere di luce propria.
Infatti Monica Luccisano ha scelto di accompagnare il lungo monologo di Amleto (interpretato con determinazione da Olivia Manescalchi, attrice dotata di una tagliente espressività fisica, gestuale e vocale, che si presenta agli spettatori vestita a la garçonne) con un quartetto di viole da gamba di grande esperienza, l’Accademia Strumentale Italiana.
Il repertorio, tra Rinascimento e Barocco, è di notevole eleganza e complessità. Il passaggio dalle danze con andamento grave e dignitoso (pavane) a quelle di carattere vivace (gagliarde), permette agli spettatori di assistere a un dialogo originalissimo tra linguaggi differenti. Il risultato è la trasformazione dell’accompagnamento musicale in un approfondimento del testo teatrale e dell’idioma con il quale è costruito: un risultato in origine per nulla scontato.
L’insieme è perfezionato dall’intervento ritmico di “Sbibu” (al secolo Francesco Sguazzabia), autentico fuoriclasse delle percussioni, capace di fornire ad ogni gesto, ad ogni parola di Amleto, e dell’attrice, supporto e cadenza coerenti, conservando tratti drammatici (nell’accezione più classica) e nel contempo modernissimi.
Al termine del monologo lo spettatore ha la sensazione di aver assistito a una sorta di dramma sulla sospensione dell’esistenza, anzi, di averne fatto addirittura parte.
Come Amleto, i suoi piedi hanno “calpestato”, anche soltanto per un attimo, quella terza sponda del fiume (la sponda del non-essere-più e del non-essere-ancora) che ci rimanda al grande Guimarães Rosa.